Afghanistan 2001: “Non in nostro nome”

dal post di Rosanna Marcodoppido

Sabato, 11/09/2021 – Oggi è un brutto anniversario. Per ricordarlo invito a leggere la poesia che Wisława Szymborska ha scritto sull’11 settembre 2001 da cui prendo spunto per restituire memoria della contrarietà netta di tante donne all’invasione armata dell’Afghanistan.

Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra, sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso

e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
senza aggiungere l’ultima frase.

L’ultima frase, pensando alla guerra che ne è scaturita, possiamo dopo venti anni forse aggiungerla noi donne. L’aggiunta, amara, potrebbe essere questa: la Storia ci ha dato ragione.
La Storia si presentò col suo volto tragico l’11 settembre del 2001 con un attacco terroristico spaventoso al cuore dell’America, quando due dei quattro aerei di linea dirottati da 19 islamici si schiantarono sulle torri gemelle del World Trade Center provocando 2977 morti e circa 6 mila feriti: fu subito chiaro che era un attacco suicida per opera di organizzazioni terroristiche. Risultò infatti autrice di quello scempio al Qaida, guidata da Bin Laden. Gli USA e la NATO dichiararono guerra al terrorismo e ad ottobre iniziarono ad operare militarmente in Afghanistan, considerato rifugio di Bin Laden, al fine di debellare i fondamentalisti talebani che lo proteggevano. Fin qui è’ tutto noto, raccontato milioni di volte. Ma le donne dove erano? Che dicevano?
Ricordo in quei giorni lo sgomento, il dolore e il bisogno che in tante avevamo di prendere parola. Il 6 dicembre del 2001, voluto dalle due responsabili, Pina Nuzzo e Rosangela Pesenti, si tenne nella sede nazionale dell’Udi l’incontro “La pace non esiste senza la democrazia, la democrazia non vive senza le donne”. Le definizioni di ‘guerra umanitaria’ e ‘guerra preventiva’ per salvare le donne costrette dai talebani a mettere il burka e a rispettare le regole più oscurantiste, furono lucidamente contestate, così come la pretesa di esportare la democrazia con le armi. Si parlò di nesso tra pace, democrazia ed emancipazione nel solco della tradizione politica delle donne e della loro esperienza quotidiana, di un lavoro da fare oltre le contingenze del presente, nella convinzione che la pace richiede pratiche diffuse e costanti. Occorreva costruire un pacifismo di tipo nuovo con una analisi degli effetti della globalizzazione e delle ingiustizie sociali viste da una prospettiva di genere. Interdipendenza era parola da recuperare ed era necessaria una radicalità nelle richieste, fino a comprendere il divieto assoluto della produzione delle armi.
Le donne si sentivano protagoniste di un antagonismo mai violento ed erano consapevoli che la democrazia non è garanzia di pace; occorreva perciò scavare a fondo nella sua fondazione storica e nel significato che ancora avevano parole come patria e bandiera, in genere fondate allora come ora sulla necessità dell’esistenza di un nemico da fronteggiare e, se necessario, da abbattere ad ogni costo. Occorreva il coraggio di invitare i figli alla diserzione, far riconvertire il sistema di produzione da militare a civile, trovare nuove forme di lotta contro il modello consumistico e predatorio a danno dei paesi più poveri, causa prima di molti conflitti, per aprirsi a nuovi stili di vita.
Era infine necessario collegarsi alle donne delle istituzioni italiane ed europee affinché facessero pressione verso i rispettivi governi per fermare le armi. Qualche giorno dopo, il 9 dicembre, la sede nazionale dell’Udi in via dell’Arco di Parma ospitò una seconda giornata di discussione su incubi di pace e deliri di guerra dal titolo Non in nostro nome, promossa da Lea Melandri, Maria Grazia Campari, Paola Melchiori, Maria Nadotti, Paola Redaelli, Anita Sonego, che con questo stesso titolo avevano scritto un appello pubblicato sul Manifesto in ottobre. Antonella Picchio, tra le prime ad intervenire, esortò ad attraversare il mondo uscendo dai tanti piccoli luoghi in cui ci si era rinchiuse e si soffermò sulla profonda debolezza maschile, la stessa che spinge a schiacciare le donne. Si ragionò anche sul sistematico silenziamento del punto di vista femminile da parte di media e partiti.
E’ proprio su quel silenziamento che ora mi soffermo, ne vedo gli effetti negativi oggi che guardo sgomenta l’Afghanistan di nuovo in mano ai talebani. Hanno ripreso il potere in una manciata di ore, senza apparente sforzo.
Come è stato possibile? A che sono serviti venti anni di “esportazione della democrazia”? E quanti morti è costata e quanti ne costerà ancora?
L’Afghanistan è l’ennesimo esempio della tragica inutilità della guerra come mezzo per risolvere conflitti, come del resto tutto il processo storico umano sta a dimostrare, se solo si vuole vedere. E’ tempo che si dica che il silenziamento e l’invisibilizzazione delle donne hanno costi umani, materiali e affettivi molto alti, troppo alti per tutte e tutti. Oggi ci ritroviamo a dire le stesse cose di venti anni fa, uno spreco di tempo e di energie che l’umanità non si può permettere. Ancora siamo impegnate a lottare contro la violenza di ogni tipo sulle donne, una violenza le cui radici affondano, come è sempre più evidente, in una profonda debolezza maschile, tutta ancora da indagare nelle sue verità. Certo, ci sono sempre da considerare le ragioni economiche del profitto e dello sfruttamento delle materie prime, l’attaccamento al potere ovunque, anche nelle vicende dell’Afghanistan. Ma questi uomini che vedo in televisione con i turbanti, le barbe e i fucili mi appaiono tragicamente deboli e fragili, se è vero come è vero che la loro forza poggia sulla cancellazione sistematica delle donne e della loro libertà. Cosa resterà di questa loro forza intrisa di paura se le donne sapranno resistere, lottare, difendersi, mostrare la bellezza di relazioni al di fuori del potere e della prepotenza e infine uscirne vittoriose con l’aiuto di quante e quanti sapranno sostenerle?
Non lasciamole sole, noi donne occidentali. La loro libertà riguarda anche la nostra, come afferma uno degli slogan che ancora oggi viene gridato nelle piazze “Per ogni donna stuprata, uccisa, offesa, siamo tutte parte lesa”. Ricordo che “uccisa” è una parola aggiunta dopo, quando sono cominciati nel nostro paese i femminicidi, man mano che cresceva l’autonomia e la libertà delle donne. I talebani infatti sono dislocati in molti luoghi di questo mondo e portano varie divise. Restiamo unite. Ovunque.

Roma, 11 settembre 2021, Rosanna Marcodoppido

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