‘Oltre la grande bellezza’ c’è il buco nero della gestione del nostro patrimonio culturale.

Raffaella Leone

All’inizio fu la legge Ronchey del 1993, e molti di noi pensarono: è cosa buona e giusta, finalmente una legge che ci mette al livello delle grandi capitali europee. Ma era appunto l’inizio.

Poi, nel 2004, è arrivato il Codice dei Beni Culturali dell’allora ministro Giuliano Urbani, che non ha abrogato del tutto la Ronchey ma ha allargato a dismisura lo spazio concesso al ‘privato’ nella gestione del nostro enorme patrimonio culturale.

Così il già vasto campo dei ‘servizi aggiuntivi – librerie, punti di ristoro, oggettistica varia – si è allargato oltre la guardiania alla biglietteria (servizio aggiuntivo anche questo, contro ogni logica) fino ad arrivare al bene stesso. Due esempi recenti per tutti: Palazzo Vecchio a Firenze, concesso per tre giorni ad una nota casa di moda, e il Colosseo, concesso (per due soldi, secondo la Corte dei Conti) ad una altrettanto nota maison che ne ha finanziato il restauro beneficiando di un sostanzioso ritorno pubblicitario.

Il risultato di questo pluridecennale cammino è un sistema distorto, in cui ufficialmente il datore di lavoro è lo Stato – vale soprattutto per i musei – ma nella realtà sono le società dei servizi aggiuntivi a dettare le regole. Lo Stato, cui spetterebbe perlomeno il compito di vigilare e mettere ordine quando serve, appare invece in tutt’altre faccende affaccendato, per dirla con Manzoni.

Sospeso tra il pamphlet politico, la ricostruzione storica e l’analisi sociologica, sta per arrivare in libreria -esce il 5 agosto – il libro Oltre la grande bellezza, che non a caso ha per sottotitolo ‘il lavoro nel patrimonio culturale italiano’. Condivisibile o no, è un’analisi scritta a più mani a cura di Mi riconosci? Sono un professionista dei ben culturali, associazione che dal 2015 sulla spinta del movimento studentesco universitario sforna proteste e proposte per una diversa gestione del nostro patrimonio culturale e dà voce ai lavoratori che – come per lo spettacolo – hanno pagato un prezzo altissimo per il lockdown.

Tra le proposte, la più dirompente: creare un Sistema Culturale Nazionale ‘che cambi i paradigmi di gestione dei luoghi della cultura pubblici, andando verso principi di gratuità e inclusione’. In parole povere: applicare al mondo della cultura in senso lato il modello del Servizio sanitario nazionale, depurato da distorsioni e disfunzioni intollerabili.

Lo hanno presentato, nello spiazzo poco distante dalla Galleria Artsharing di via Tarra, due degli autori: Ludovica Piazzi, storica dell’arte e ricercatrice e Leonardo Bison, archeologo, ricercatore e giornalista, entrambi attivisti di Mi riconosci?, giovani, competenti, appassionati. Ad introdurli, Penelope Filacchione, storica promotrice della cultura in senso lato e a sua volta abituata a frequentare palcoscenico e quinte del mondo in questione.

Emerge il quadro desolante delle conseguenze generate dalla sregolata gestione privatistica di siti archeologici, musei e generalmente eventi culturali. C’è un dietro le quinte che il visitatore comune il più delle volte ignora: lavoratori dei servizi aggiuntivi pagati 4 euro l’ora, straordinari non riconosciuti, fruttuosi balzelli di prevendite che restano nelle casse delle società che si sono aggiudicate gli appalti, volontariato a iosa a discapito delle figure professionali. Anzi, spesso le stesse figure professionali , per esempio le guide autorizzate, sono costrette ad accettare retribuzioni non dignitose pur di lavorare. ‘Così si svilisce tutto il lavoro culturale – riflette amareggiata Maria Teresa, lei stessa guida culturale – in pratica è come se si dicesse che in questo settore professionalità e preparazione non contano’. In origine, la concessione dell’appalto doveva durare 5 anni + 5 anni e alla scadenza doveva essere indetto un altro bando. Non succede da almeno due decenni, per esempio per la società Coopculture, e nel frattempo i visitatori (e i profitti, per chi li incassa) sono aumentati in misura esponenziale. Il mitico mercato, quello senza regole del liberismo puro, detta legge e lascia ampio spazio anche alle grandi società straniere.

Oltre la grande bellezza è un libro di protesta ma anche di proposta, ci tengono a sottolineare i due co-autori. Per esempio parla di un turismo sostenibile, che non piomba addosso alle mete di volta in volta interessate, ma ne richiede il coinvolgimento attivo, avendo come criterio la sostenibilità non solo economica, ma anche sociale e ambientale.

Della proposta più difficile, il Sistema Culturale Nazionale, si è già detto. E’ stata inviata all’attuale ministro Franceschini, da cui si aspetta ancora un riscontro.

Ora si riparte. ‘La pandemia e la fine del lockdown potrebbero essere l’occasione per ristrutturare radicalmente i beni culturali’ dicono i due giovani e appassionati co-autori. Un’affermazione che racchiude contemporaneamente speranza e scetticismo.

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